ESTRATTI
Capitolo 34 - Vienna, mercoledì 14 dicembre ore 20:06...
..."La velocità era sempre stata la sua migliore prerogativa. Era solito misurare il mondo in termini di secondi, di decimi, di centesimi. In qualche modo riusciva a vedere le cose in modo distinto quando si muoveva celermente. Il movimento veicolava chiarezza, e la chiarezza cognizione. Dove gli altri vedevano una chiazza accennata, lui vedeva un contorno definito. Dove gli altri vedevano un’ombra, lui vedeva una figura e sapeva perfino intuirne le intenzioni.
È così che vinceva. Sempre."...
Capitolo 29 - Roma, martedì 13 dicembre ore 21:16
..."la sua famiglia, di etnia Han, era di estrazione contadina e fervente buddista da generazioni. Per questo motivo i suoi genitori avevano atteso il suo quinto anno per affidare la sua futura educazione alla sapienza dei monaci del sacro tempio. Secondo la rigida tradizione tibetana la base dell'educazione dei bambini è l'inaccettabilità dell'umiliazione e delle punizioni corporali fino ai cinque anni: il primo dei quattro piani quinquennali in cui è suddivisa la formazione di un uomo.
Al primo quinquennio aveva provveduto perciò la sua famiglia rispettando i sacri dettami buddisti. Ma ora che il bambino sarebbe entrato nel suo secondo quinquennio, suo padre aveva deciso di affidare la sua formazione spirituale e fisica ai monaci. Dai cinque ai dieci anni lo aspettava la condizione di schiavitù. Lo avrebbero atteso dei compiti durissimi ai quali avrebbe dovuto adempiere incondizionatamente.
È in questa delicata fascia di età che i giovani uomini sviluppano rapidamente le loro capacità intellettuali e il loro pensiero; per questo, secondo la severa disciplina del buddismo tibetano, debbono essere “caricati” il più possibile. E puniti se necessario, ma mai con pene corporali. La cosa più importante è non mostrare mai pietà per loro, per non lasciare che si sviluppi nel loro carattere l’infantilismo..."
Capitolo 46 - Roma, sabato 17 Dicembre ore 08:33
... "Riapparve subito dopo con in mano una Jian, la spada dritta a doppio filo, tipica delle arti marziali cinesi. Saltò dal soppalco e gli si avventò contro con un fendente, rapida come un crotalo. Lui, indietreggiando per schivare l’ampia passata che gli aveva sfiorato il naso, inciampò sul tavolino basso di fronte al divano e cadde a terra sulla schiena.
Photuris gli fu subito sopra, le gambe divaricate con lui in mezzo inerme. Impugnò la jian con entrambe le mani e si preparò ad affondarla nel suo petto. Il suo sguardo era freddo e lucido, come non lo aveva mai conosciuto.
La ragazzina indifesa si era appena trasformata in un killer letale e maledettamente abile. E ora Jacques era alla sua completa mercé. Sentì rifluire il sangue dal viso, il cuore che pompava nelle orecchie con un fragore simile a quello delle onde su una scogliera..."
Capitolo 4 - Cremona, Regno d'Italia - venerdì 2 luglio 1869, ore 10:21
..."Lo condusse all’imbocco di quel tetro abisso dove era poggiata una lunga scala di legno, i cui montanti spuntavano fuori quasi fossero le corna di un diavolo messo lì di guardia. Gian Giacomo Poldi Pezzoli scese i pioli in tutta fretta, senza curarsi affatto della loro evidente precarietà. Giunto in fondo si ritrovò circondato da resti umani sparpagliati, per lo più ossa bianche ormai scarnificate dal tempo, scarpe impolverate, pizzi smembrati e brandelli di tessuti. C’erano anche assi di legno spezzate e consunte, schegge ovunque, iscrizioni parziali in bronzo e frammenti di marmo.
Cominciò a scavare a mani nude tra quelle spoglie e tra i residui frantumati delle bare. Rimosse pietre, legno, femori, crani e mani. Piccole e grandi. C’erano persino resti di ossa appartenute a fanciulli e a neonati. Una sorta di orrida bolgia, in cui l’incuria degli uomini aveva precipitato ormai quel sacrario. L’odore stantio e putrefatto della morte misto alla polvere dei detriti smossi gli procurò un conato violento, al quale pose rimedio portando il fazzoletto imbevuto di profumo davanti alla bocca e al naso. Non bastò però quel disgustoso scenario e la reazione nauseata del suo organismo a farlo desistere dal suo intento..."
Capitolo 48 - Roma, sabato 17 dicembre ore 19:42
... "Suonò.
Due colpi brevi, ravvicinati. Era il loro segnale esclusivo. Lei, però, stavolta non rispose al citofono com’era solito fare. Jacques sentì soltanto scattare la serratura elettrica del portone. Lo aprì e si avviò lentamente lungo le scale. Quel breve percorso di due piani fu costellato dai flashback della loro storia. Quante volte le avevano percorse insieme ridendo, rincorrendosi e baciandosi. La sua mente si riempì di quelle immagini, ma le scacciò. Adesso, la nostalgia non poteva più accampare alcun diritto sulla sua determinata decisione...
Caterina era sulla porta. La sua bellezza, che conosceva bene, per un attimo lo stordì. Indossava un elegante abito di taffetà verde, come i suoi occhi, con un’ampia scollatura che esaltava lo splendido décolleté. Un vestito che non le aveva mai visto, né mai toccato. Non glielo aveva neanche mai sfilato di dosso. Quel pensiero lo turbò.
«Totò non è con te?» chiese lei affettata, un sopracciglio alzato.
«Ho preferito lasciarlo a casa, Caterina. Vorrei parlare con te in santa pace. Se lo avessi portato avrebbe iniziato a scatenarsi nel gioco con Mia, quindi meglio di no.»
«Non credo ci sia molto da dire ormai, Jacques. Prego, comunque. Accomodati.»
Si fece da parte. Lui entrò, sfiorandola. Il suo profumo era cambiato da quello che metteva di solito. Questo ricordava delle pesche calde al sole, e la pervadeva: insieme a una pericolosa tensione.
«Devi scusarmi, non ho molto tempo da dedicarti. Sto aspettando visite» disse Caterina inclinando il viso, dal lato opposto a quello in cui si trovava lui. Una ciocca di capelli biondi le carezzò la guancia, lambendo le labbra per andarsi a impigliare all’angolo della bocca. Jacques avrebbe voluto spostargliela, per rimetterla a posto, ma non osò.
Dietro di lei, nel salotto del suo appartamento open space, il tavolo rotondo era già apparecchiato per due.
Lei richiuse la porta alle sue spalle.
Un’elegante tovaglia ricamata, celeste, accoglieva le splendide stoviglie in porcellana e i doppi bicchieri in cristallo. Al centro, un decanter dal design ultra moderno stava già ossigenando del vino rosso.
«Non ti voglio disturbare, Caterina, se preferisci posso tornare in un altro momento.»
L’espressione degli occhi di lei fu attraversata da un guizzo di stizza, misto a impazienza.
«No, Jacques, nessun altro momento tra di noi», lo gelò con risolutezza. All’improvviso riuscì a essere fredda e distante quanto era bella ed elegante. «So già di cosa vuoi parlare, per cui ti risparmio la fatica. Vuoi dirmi che è finita» troncò decisa.
«Preferirei parlarne comunque. Credo sia importante per entrambi.»
«Io invece no. Non lo credo. Non c’è niente di cui discorrere.» Aveva sempre la risposta pronta e tagliente quando era ferita. La sua lingua di velluto, all’occorrenza, era lesta a trasformarsi in quella biforcuta di un cobra.
Jacques ebbe l’impressione che quella fredda conversazione stesse per degenerare e provò a tirare i remi in barca. «Cate, per favore» fece a bassa voce «cosa stai combinando?» le sussurrò, guardandola con tristezza. Non c’era cenno di biasimo nelle sue parole, più una sorta di preoccupazione che lei si stesse buttando via. Quindi, prima che potesse rispondere, aggiunse: «Lui… Chi è lui?» indicando con la testa la tavola imbandita.
«Lui chi? quello che mi fa godere adesso?»
Non era preparato per quella risposta sferzante. Non da parte di Caterina. Per un attimo desiderò cancellarla, ma non sapeva farlo. Non con lei. Non gli aveva risposto con un nome maschile, oppure con “l’uomo che sto aspettando”, che già di per sé sarebbe stata dura da mandar giù. No, lo aveva esibito come strumento del proprio piacere. E sapeva bene quanto gli avrebbe fatto male, per questo glielo aveva vomitato contro. Per ferirlo.
Jacques non replicò. Sbatté le palpebre ripetutamente, come se quel gesto inconsapevole lo stesse aiutando ad ingoiare quel boccone amaro. Si voltò, avviandosi verso la porta senza parlare. Giunto all’uscio indugiò, la mano sulla maniglia e lo sguardo rivolto al parquet intarsiato. Accennò un movimento, come a volersi girare indietro, ma non fu in grado di portare a termine neanche quell’ultimo gesto.
«Scusami per il disturbo» riuscì appena a bisbigliare, mentre lei richiudeva la porta dietro di sé. Caterina vi si appoggiò contro con le spalle e, sentendolo scendere, cominciò a singhiozzare. Riuscì a soffocare l’urlo di disperazione, tappando forte la bocca con entrambe le mani, ma ben presto il suo splendido viso si trasformò in una grottesca maschera di lacrime nere e rossetto impiastricciato fuori dalle labbra.
Fece scivolare di dosso l’abito dopo averlo slacciato, lasciandolo acciambellato a terra come la pelle abbandonata da un serpente dopo la muta, mentre scalciando lanciava lontano le décolleté nere.
Si lasciò cadere sul pavimento, rimanendo seduta con le mani sul volto e con indosso solo l’intimo, quasi a voler centellinare quel dolore profondo e lacerante che la stava devastando.
Le se inabissò il cuore nello stomaco, come se si trovasse sulle montagne russe lanciate a tutta velocità.
Infine si alzò e, ciondolando, si avviò verso il tavolo.
Sparecchiò in tutta fretta, gettò il vino nel lavabo e la tovaglia nel cesto del bucato.
Ammucchiò i piatti e le stoviglie in cucina, prese in braccio Mia e piangendo andò a letto con lei.
La sua messinscena era finalmente terminata.
Da giovedì l’aveva allestita con cura ogni sera, ripetendo quel patetico rituale con la morte nel cuore.
Era sicura che prima o poi Jacques sarebbe arrivato. Ora, che non sarebbe mai più tornato..."
... una pallottola sibilò vicino al suo orecchio destro e colpì la base del palco sopra di lui, sollevando una nuvola di polvere d’intonaco che gli ricadde addosso.
Aconitum si voltò, il suo sguardo fu catturato dalla bocca nera della canna della pistola puntata verso di lui. Da quella distanza gli rammentò il punto alla fine di una frase.
Il tempo, all’improvviso, sembrò opporre un’apatica resistenza agli accadimenti che si stavano accavallando.
Afferrò di nuovo la mitraglietta QBZ-191 ma lasciò partire un solo colpo, anticipando lo sventurato antagonista.
Un piccolo foro, perfettamente tondo, guarnì la guancia dell’uomo, quasi fosse un neo, e dalla nuca si alzò uno spruzzo rosato.
Barcollò solo un attimo, quindi avanzò di corsa ancora per qualche passo ma il suo incedere divenne irregolare, scomposto. La mano che stringeva la pistola nella direzione di Aconitum scattò in alto all’improvviso. La sua bocca, adesso, era socchiusa, delineata da un ghigno strano, gli occhi erano divenuti vacui. Roteando le braccia crollò a terra bocconi.
L’arma rimbalzò, poi scivolò sul pavimento di marmo e s’infilò sotto una delle poltroncine della platea..."